Gli IMI, i soldati che dissero no a Salò

Una storia dimenticata quella dei militari italiani che dopo l’armistizio iniziarono una resistenza non armata, un’obiezione di coscienza contro la guerra e contro i regimi. Le iniziative del Comune di Faenza in occasione del Giorno della Memoria hanno voluto riscoprire, per ridare onore e ricordare, questa vicenda

«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.

La richiesta è stata accolta.

Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.

Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.»

Era l’8 settembre 1943. Immediatamente le forze del Terzo Reich, già organizzate da tempo, iniziarono l’occupazione del nostro paese e rivolsero la loro ferocia verso i militari italiani impegnati nei diversi fronti: in Francia, Grecia, Jugoslavia, Albania, Polonia, Paesi Baltici, Russia e nella stessa Italia. A tutti fu intimato di deporre le armi e chi non lo fece fu vittima di eccidi e crimini di guerra, come avvenne a Cefalonia.

I nostri soldati, sottufficiali e ufficiali furono quindi davanti alla scelta di passare dalla parte tedesca e combattere nella Wehrmacht o con le SS: rifiutarono in massa e, dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana – lo stato fantoccio che collaborava con i nazisti – si rifiutarono anche di aderire a quest’ultima.

Furono quindi catturati e iniziò per loro la deportazione in nave e poi in treno verso i lager in Germania, Austria e Polonia. Il Terzo Reich si inventò per loro una nuova etichetta: fu loro tolto lo “status” di prigionieri di guerra, e attribuito quello di “internati”. Come tali non godevano della protezione degli accordi internazionali, primo tra tutti la Convenzione di Ginevra, e neppure della tutela della Croce Rossa Internazionale e delle altre organizzazioni umanitarie.

Dopo un viaggio in condizioni disumane, spesso durato giorni o settimane, appena arrivato nel lager, il prigioniero veniva immatricolato con un numero di identificazione che sostituirà il nome e che sarà inciso su una piastrina di riconoscimento accanto alla sigla del campo. Tra le formalità d’ingresso ci sono anche la fotografia, l’impronta digitale, l’annotazione dei dati personali su appositi documenti di riconoscimento e la perquisizione personale e del bagaglio.

La vita quotidiana era scandita da numerosi controlli e ispezioni, dagli appelli ore e ore in fila in piedi e al gelo e frequenti erano le punizioni anche di carattere corporale con percosse che in alcuni casi provocavano lesioni mortali. Gli alloggi consistevano in baracche prive di servizi igienici che ospitavano brande di due o tre piani. A ogni internato veniva assegnato un pagliericcio e due coperte corte.

Anche l’abbigliamento era insufficiente, gli internati disponevano perlopiù della divisa con la quale erano stati catturati. Cosicché quelli che provenivano dal fronte greco o balcanico indossavano divise estive, inadatte all’inverno del centro Europa. La malattia era spesso una conseguenza delle dure condizioni di vita.

Nei campi di concentramento furono sottoposti a lavoro “coatto”, per essere sostenere l’industria bellica tedesca, ma a fronte di fame, sevizie, e umiliazioni di ogni tipo, continuarono ad opporsi ad ogni forma di collaborazione con i nazifascisti.

Con il loro no pagarono pesantemente la fedeltà al giuramento prestato all’Italia. In totale furono circa 650mila, oltre 50mila morirono nei campi, per malattie, fame, stenti, uccisioni e altrettanti al ritorno in patria per malattie contratte in prigionia. Coloro che riescono a sopravvivere sono segnati per sempre.

Nell’Italia del primo dopoguerra la storia degli IMI è presto dimenticata. Un oblio durato a lungo. Gli storici hanno cominciato ad occuparsi degli IMI solo dalla metà degli anni Ottanta: tardi, ma forse ancora in tempo per far conoscere questa pagina di storia e rendere il giusto omaggio ai «650 mila» che, con il loro sacrificio, contribuirono a portare la libertà e la democrazia nel nostro paese.

Il loro no a collaborare fu una decisione volontaria, una resistenza senza armi ed è nostro dovere ricordare le loro storie e il valore della loro scelta. Per molti soldati e ufficiali la prima presa di coscienza dopo vent’anni di regime totalitario.

Negli scorsi mesi come amministrazione comunale abbiamo iniziato un percorso di ricerca per conoscere i nomi degli Internati Militari della nostra città e di lì partire per ricostruire le loro storie, le loro vite con documenti e fotografie e coinvolgendo le famiglie e gli eredi.

Dal 2007 il Governo Italiano riconosce ai cittadini italiani, militari e civili, deportati e internati nei lager nazisti per essere destinati a svolgere lavoro coatto per l’economia di guerra tedesca una medaglia d’onore che viene consegnata anche postuma agli eredi.

Quest’anno, il 24 gennaio, nella Sala del Consiglio Comunale il Prefetto della Provincia di Ravenna ha consegnato le medaglie ai parenti dei faentini Attilio Amadio, Antonio Cavina, Mario Domenicali e Remo Zauli.

«Ingannato, Malmenato, Impacchettato

Internato, Malnutrito, Infamato

Invano Mi Incantarono

Inutilmente Mussolini Insistette»

Giovannino Guareschi

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